Diritto alla proprie origini e diritto alla privacy

family-1466260_1280Cass., sent. n. 15024 del 21.07.2016

La Suprema Corte interviene nuovamente su un tema particolarmente delicato, coinvolgendo gli aspetti più personali ed intimi della persona umana. Il #diritto alla conoscenza delle proprie #origini biologiche e alle circostanze della propria nascita trova infatti un sempre più ampio riconoscimento a livello internazionale e sovranazionale (cfr. Convenzione di New York del 1989 in materia di diritti dei minori, dove si afferma che il minore ha diritto, nella misura del possibile, a conoscere i propri genitori sin dalla nascita; Raccomandazione n. 1443 /  2000 del Consiglio d’Europa, che invita gli Stati ad assicurare il diritto del minore adottato a conoscere le proprie origini, al più tardi al compimento della maggiore età, e ad eliminare dalle legislazioni nazionali qualsiasi disposizione contraria).

Secondo gli interpreti, alla realizzazione della personalità dell’essere umano concorrono infatti la conoscenza dei dati concernenti la propria identità e l’interesse vitale di ottenere le informazioni per apprendere la verità su un aspetto importante dell’identità personale quale è la identità dei propri genitori.

Tale diritto va peraltro contemperato nelle ipotesi in cui la madre abbia espressamente richiesto, all’atto del parto, di restare anonima. La scelta dei mezzi più adatti per assicurare equamente la conciliazione dell’istanza di protezione della madre con la domanda legittima del figlio ad avere accesso alle informazioni sulle proprie origini viene rimandata ai singoli Stati.

Con l’interessante pronuncia in esame, tuttavia, la Suprema Corte ritiene non del tutto corretto ed appropriato ricorrere alla categoria del bilanciamento dei diritti fondamentali, in quanto al momento della scelta della madre di partorire anonimamente è in gioco il suo diritto alla vita e quello del figlio, diritti che devono ritenersi assoluti. Dopo la nascita, peraltro, il diritto all’anonimato diventa strumentale a proteggere la scelta compiuta dalle conseguenze sociali e in generale dalle conseguenze negative che verrebbero a ripercuotersi in primo luogo sulla persona della madre. In questa prospettiva il diritto può anche estinguersi: è chiaro peraltro che solo la madre può essere la persona legittimata a decidere se revocare la sua decisione di rimanere anonima in relazione al venir meno delle esigenze di protezione di cui sopra si discorreva.

In questo quadro si inserisce la sentenza della Corte Costituzionale del 18 novembre 2013, n. 278, che ha dichiarato illegittimo l’articolo 93, co. II, d. lgs. n. 196/2003, laddove si prevede che il certificato di assistenza al parto o la cartella clinica contenente i dati personali che rendono identificabile la madre che abbia richiesto di rimanere anonima, possano essere rilasciati esclusivamente decorsi cento anni dalla formazione del documento, impedendo di fatto sia alla madre di revocare l’iniziale scelta sia al figlio di conoscere le proprie origini.

A seguito di tale interpretazione, evidentemente, la scelta inizialmente operata dalla madre non è più irrevocabile e il segreto si configura pertanto come sempre reversibile.

Nel caso di specie la Suprema Corte ha stabilito che, in ogni caso, non sussiste più alcun esigenza di tutela e protezione della madre nel momento in cui la stessa viene a mancare: in tale momento, infatti, si è certamente in presenza di un affievolimento, se non della scomparsa, delle ragioni di protezione, risalenti alla scelta di partorire in anonimo, che l’ordinamento aveva ritenuto meritevole di tutela per tutto il corso della vita della madre proprio in ragione della revocabilità di tale scelta. Diversamente opinando, precisano i giudici della Suprema Corte, si produrrebbe l’effetto paradossale per cui la cristallizzazione della scelta per l’anonimato, dichiarata incostituzionale dalla Corte Costituzionale, verrebbe a determinarsi post mortem.

Clicca qui per leggere il testo integrale della sentenza.

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