Licenziamento ingiustificato e fallimento

fallimentoCass. sez. Lav., 23.03.2018, n. 7308

Con la sentenza del 23 marzo 2018 n. 7308 la Corte di Cassazione si è pronunciata in merito al delicato tema relativo alla disciplina applicabile al caso di retribuzioni non percepite dai dipendenti licenziati illegittimamente a seguito del fallimento della società datrice di lavoro.

In particolare, ribaltando la sentenza della Corte territoriale di Napoli – secondo la quale in caso di fallimento dell’impresa datrice di lavoro il licenziamento, intervenuto successivamente alla dichiarazione di fallimento e statuito illegittimo con sentenza passata in giudicato, è inidoneo a dar luogo ad un credito del dipendente a causa della mancanza della prestazione lavorativa – la Suprema Corte ha affermato che la curatela è esposta alle conseguenze risarcitorie previste dall’ordinamento, secondo la disciplina applicabile tempo per tempo, a tutela della posizione del lavoratore.

Analizziamo il percorso logico-giuridico effettuato dal giudice di legittimità per giungere a tale enunciazione di principio.

Tale questione sorgeva a seguito della proposizione del ricorso per cassazione della lavoratrice che aveva visto il rigetto della sua domanda volta ad ottenere l’ammissione al passivo fallimentare della società datrice di lavoro, fondata sul fatto che, in seguito alla dichiarazione di fallimento del 1999 non aveva più percepito le retribuzioni ed era stata licenziata illegittimamente dalla curatela per violazione della L. n. 223/ 1991.

Il ricorso è stato ritenuto fondato nei limiti della motivazione che segue.

In tema di effetti del fallimento sui rapporti di lavoro pendenti alla data della relativa dichiarazione, l’art. 2119 co. 2 cod. civ. stabilisce che esso non costituisce giusta causa di risoluzione del contratto.

Il principio secondo il quale il rapporto di lavoro rimane sospeso in attesa della dichiarazione del curatore ex art 72 L. Fall. che può scegliere di proseguire nel rapporto ovvero sciogliersi da esso, è stato confermato dalla nuova formulazione dell’articolo citato, introdotta dal D.lgs. n. 5 del 2006, che disciplina in generale il fenomeno degli effetti del fallimento sui rapporti giuridici pendenti.

In tale lasso temporale – dalla dichiarazione di fallimento alla scelta del curatore – la mancanza dell’esecuzione della prestazione lavorativa fa venir meno l’obbligo della corresponsione della retribuzione e dei contributi (Cass. n. 7473/2012).

Lo stato di incertezza in cui versa il lavoratore è controbilanciato dalla possibilità di mettere in mora il curatore, facendogli assegnare dal giudice delegato un termine entro il quale deve determinarsi, decorso il quale il contratto si intende sciolto; il tempo prolungato per inerzia o negligenza fa sì che il lavoratore possa ottenere un risarcimento del danno secondo le regole di diritto comune.

Nel caso in cui il curatore intenda sciogliere il rapporto di lavoro, dovrà farlo nel rispetto delle norme limitative dei licenziamenti individuali e collettivi, nel rispetto quindi della disciplina generale prevista per la risoluzione dei rapporti di lavoro e il lavoratore potrà reagire al recesso esercitando i rimedi impugnatori ordinari.

Se si accerta che il licenziamento è stato esercitato in difformità al modello legale, la curatela è esposta alle conseguenze derivanti dall’illegittimo esercizio del potere unilaterale, nei limiti in cui le stesse siano compatibili con lo stato di fatto determinato dal fallimento.

Nel 2017 con sentenza n. 2975 la Cassazione ha ribadito che, in caso di fallimento della società datrice di lavoro, l’interesse del lavoratore alla reintegrazione – previa dichiarazione giudiziale di illegittimità del licenziamento – ha ad oggetto tanto il ripristino della prestazione lavorativa quanto le utilità connesse al ripristino di tale rapporto in uno stato di quiescenza attiva, come la possibilità di ammissione a benefici previdenziali.

Sulla scorta di tale orientamento, secondo la Suprema Corte, il giudice territoriale avrebbe errato nel negare l’ammissione al passivo del fallimento della ricorrente per i crediti relativi al periodo successivo al licenziamento della medesima.

Infatti, la curatela era esposta alle conseguenze patrimoniali derivanti dalla declaratoria di inefficacia del recesso per violazione della L. n. 223/1991 statuita con sentenza passata in giudicato.

Nell’ipotesi di licenziamento illegittimo il Legislatore ha inteso attribuire al lavoratore diritti retributivi malgrado la non avvenuta prestazione lavorativa, prevedendo il risarcimento del danno commisurato alla retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento a quello della reintegrazione.

Con detta sentenza n. 7308 del 23 marzo 2018 la Corte di Cassazione ha stabilito tale principio di diritto: nel caso in cui il curatore decida dopo la dichiarazione di fallimento di interrompere il rapporto con il dipendente ma il recesso è illegittimo, il lavoratore è ammesso al passivo del fallimento dell’azienda datrice per il riconoscimento di stipendi e TFR, rimanendo in ogni caso la curatela, che ha proceduto ad intimare un licenziamento illegittimo, esposta alle conseguenze risarcitorie previste dall’ordinamento, secondo la disciplina applicabile tempo per tempo, a tutela della posizione del lavoratore.

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